Rapporto finale di ricerca Di Necessità Virtù - anno 2020/21

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Rapporto finale della ricerca Di Necessità Virtù

 Centro Territoriale Mammut - anno 2020/21

Se i ponti sono un  simbolo positivo, questo è stato simbolicamente uno degli anni migliori. Sì, perché mai come questo può essere definito “anno ponte”. Il bello è che sul ponte ci siamo ancora e in pieno, per questo possiamo avere solo un’idea sbiadita di quello che c’era prima di arrivarci, un’idea un po’ più vaga di quello che finora su questo ponte abbiamo incontrato e solo possibili fantasie su ciò che ci aspetta una volta scesi dal ponte  (non sappiamo nemmeno quanto sarà ancora lungo il ponte!).

“Quando l’uomo progetta Dio ride”, fu questo l’adagio popolare che a settembre 2020 ci sembrò il più adeguato ad inaugurare l’anno scolastico che stava per iniziare. Così è stato.

Tra i tanti insegnamenti che potremmo trarre forse il più insistente è stato proprio questo: l’importanza di  riuscire a dare il meglio di sé (o quantomeno a trovare un equilibrio buono) in un tempo all’insegna dell’imprevisto e dell’imprevedibile.  Occasione irripetibile per sperimentare la pedagogia incidentale (che tra l’altro è il titolo di uno dei testi di Colin Ward - a cura di Francesco Codello - tra quelli da noi maggiormente citati durante l’anno), la pedagogia dell’imprevisto o i tanti altri modi con negli anni è stata chiamata quel tipo di scuola caratterizzata dell’aderenza con la vita e col suo scorrere nel tempo unico e presente.

“Bastava avere se stessi. Non servivano quaderni o altro da portare”, così Pamela Buda, una delle insegnanti più attive durante questo anno di ricerca, racconta le giornate durante il lockdown, quando con la sua classe se ne andava in giro per le strade dei Quartieri Spagnoli a fare scuola non potendo rimanere in classe.

Lo sfondo integratore “libertà/interdipendenza” e il focus metodologico “Come fare di necessità Virtù” alla fine si sono intrecciati indissolubilmente trovando sintesi nella pedagogia dell’imprevisto.

Un anno arricchito dalle tante formazioni come quelle su Ernesto De Martino, con l’attualizzazione della ricerca antropologia relativa a magia, riti e miti di Stefano Matteis, sulla cultura africana “ tradotta” per noi da Livia Apa, dalle nostre letture su Morin e la complessità, su Makiguchi e la creazione di valore, sull’insegnamento di Raimon Panikkar raccontato da Roberta Cappellini, sul senso della lettura e sui libri e l’invisibile grazie a  Emilio Varrà e a Giordana Piccinini dell’associazione Hamelin, sull’incontro con Claudia Cannavacciuolo dove abbiamo ragionato a partire dall’approccio psicologico, sulla possibilità di una scuola libertaria grazie all’appassionato racconto di Luana Ronzoni di Fucina Buenaventura, sull’opportunità offerta dalla didattica digitale grazie agli incontri con Maria Ranieri, sulla rivoluzione delle piante e gli occhi nuovi con cui abbiamo guardato la terra e le sue creature, grazie ad autori come Stefano Mancuso, assieme al contributo dei tanti amici preziosi che da sempre accompagnano la ricerca del Mammut come Gabriella Giardina, Oreste Brondo, Maurizio Braucci, Francesca Saudino, Annamaria Lovo, Pasquale Amato, Goffredo Fofi, Franco Lorenzoni, Claudio Tosi  e molti altri che in vario modo hanno contribuito al nostro percorso dell’anno che va chiudendosi. Tutto materiale macinato durante gli incontri, le letture  e  le rielaborazioni che il nostro gruppo di ricerca ha fatto durante quest’anno e di cui abbiamo cercato di dare conto attraverso la neonata nostra rivista L’A.PE.

Contributi che ci hanno aiutato a tenere la  mente più aperta e allenata perché potesse essere pronta di fronte alle vere occasioni di crescita e apprendimento: le giornate di scuola trascorse assieme a grandi e piccoli, l’incontro con le tante difficoltà/possibilità che la vita ci ha fatto incontrare, a partire dalle relazioni con i nostri simili e con ogni altra creatura (visibile e invisibile) trovata durante il nostro cammino dell’anno.

L’avere un gruppo di ricerca, anche se attraverso le piattaforme informatiche, anche se attraverso le chat, è stato il vero motore di ogni nostra crescita. Una funzione importante l’ha svolta la tensione di scrittura collettiva che quest’anno non era solo con i bambini (con il Barrito dei Piccoli che pure ha continuato ad essere un volano importantissimo) ma anche per i grandi con L’A.PE.

Fatto sta che ricerca metodologica e sfondo integratore, Di Necessità Virtù e Liberazione Interdipendenza come dicevamo prima, si sono vicendevolmente potenziate facendoci arrivare messaggi forti e chiari.
Che potremmo anche chiamare conclusioni della ricerca, volendo usare  un gergo più canonico.

A proposito,  l’intenzione iniziale di dare vita ad un’Università di Strada - Università de  L’A.PE (Liberazione attraverso pedagogia) -  si è concretizzata, portando alla nascita di una comunità di studio rigorosa quanto prolifera,  e oltretutto fedele all’idea di “invisibilità” protagonista dell’anno. La sensazione è stata quella di sentirsi parte di un’Università prestigiosa, anche se invisibile agli altri e a noi stessi.

Vi proponiamo in questo documento di sintesi alcune considerazioni supportate dal percorso messo in campo durante l’anno.  Nel tentativo di essere brevi, rimandiamo ai precedenti numeri della rivista e al resto degli articoli pubblicati in questo, dove troverete materiali a supporto delle pratiche e delle teorie su cui basiamo queste nostre considerazioni.  Nel numero 1 e 2 della rivista L’A.PE abbiamo infatti dato conto dello stato di avanzamento della ricerca, riportando quadri di contesto, teorie, comparazioni,  azioni,  indicatori e  riflessioni progressive a cui il nostro gruppo di lavoro giungeva nel corso dei mesi.

 

Il gruppo di  ricerca

Del gruppo di ricerca facevano parte docenti delle scuole napoletane ICS V Circolo e Virgilio 4 di Scampia, il 58^ Circolo del Monterosa, la scuola paritaria Dalla Parte dei Bambini (sedi Quartieri Spagnoli, Corso Vittorio Emanuele, Vomero), l’ICS Giacomo Leopardi di Potenza e la scuola di italiano per stranieri Spac di Modena. Del gruppo allargato di ricerca facevano inoltre parte docenti delle scuole primarie di Milano e Modena e Bologna.

La ricerca azione ha coinvolto un totale di circa 50 docenti e 1.000  bambini delle classi prime, seconde, terze, quarte e quinte della primaria e del secondo e terzo anno dell’infanzia delle città sopra riportate.  

 

Le domande iniziali e il  percorso

Rimandando al documento iniziale pubblicato sul numero 1 della rivista L’A.PE, riportiamo sinteticamente le due domande iniziali alla base della nostra ricerca azione:

“Come trasformare uno tra gli anni più difficili della storia dell’umanità in occasione per realizzare la scuola ideale che, prima dell’emergenza sanitaria, abbiamo sempre sognato di fare senza riuscirci?”. La domanda della ricerca chiamata appunto “Di Necessità Virtù”.

“Come essere liberi? Ossia, una volta che abbiamo capito che se non possiamo fare proprio tutto quello che vorremmo, che non possiamo più prendercela con gli  altri esseri umani (genitori, partner, figli, amici, capi…) come facciamo i conti con l’interdipendenza, con quello che è più forte di noi e che non possiamo controllare?”. Questa la domanda relativa allo sfondo integratore “Liberazione/interdipendenza”.

Per ciascuno dei due quesiti abbiamo proceduto con percorsi diversi, pur essendosi alla fine intrecciati come prima accennato.

Relativamente a Di Necessità Virtù siamo partiti con una sorta di gioco teatrale: immaginiamo che uno sperimentatore folle abbia inserito una variabile indipendente nel contesto a cui eravamo abituati e che questa variabile sia il Covid 19. Le tante conseguenze di questa mega variabile le abbiamo specificate nel dettaglio, immaginando che potessero diventare a loro volta “causa” di cambiamenti mai realizzati ma da sempre auspicati. E così ad esempio le norme sul distanziamento sono diventate occasione per migliorare l’uso del teatro da fare in classe. O spinta per  lezione fuori dall’aula. L’impossibilità di contatto si è rilevata detonatore per la voglia di contatto, per capire una volta per tutte quanto importante fosse la relazione e soprattutto quella basata sul pelle a pelle. L’obbligo di mascherine si è rivelato il miglior maestro rispetto all’importanza di cose fino a poco tempo fa date per scontato, come guardare l’espressione facciale dei propri alunni. O per  restituire importanza al resto del corpo, in quanto la faccia perdeva importanza a seguito della mascherina o perché assente (o solo spettacolarmente presente) in Dad.

 

La ricerca azione

Abbiamo lavorato attraverso uno strumento a cui abbiamo dato il nome di “matrice narrativa”, una sorta di griglia fatta di resoconti “freddi” su contesto, indicatori, obiettivi, azioni ma la cui finalizzazione era “calda”:  produrre narrazioni, racconti con radici nell’esperienza e nell’affettività.  Matrici realizzate a inizio anno con ciascuno dei docenti che voleva far parte della sperimentazione, singolarmente o con i colleghi con cui condivideva la classe. Aggiornata quindicinalmente o mensilmente, a seconda delle disponibilità dei docenti.

Come si confà a uno schema di ricerca azione, abbiamo cercato di convalidare l’ipotesi che dalla  domanda nasceva:  “Le criticità generiche e specifiche derivanti dall’emergenza sanitaria possono trasformarsi in chiave di volta per sbloccare situazioni impantanate da decenni?”.

 Siamo partiti con il condividere alcuni dei presupposti della scuola attiva che secondo noi erano alla base dell’ideale di scuola che teneva insieme la nostra nascente comunità di ricerca.  Con ciascuno abbiamo dei maestri - ricercatori abbiamo quindi messo insieme un manifesto ideale di scuola. Abbiamo poi nutrito la nostra ricerca con letture, formazioni e comparazioni di chi si era trovato in altri luoghi e altri tempi in situazioni analoghe.  Ci siamo dati indicatori di risultato, relativamente a quanto saremmo riusciti a realizzare del manifesto di scuola ideale che avevamo in mente.  E abbiamo messo in campo le azioni programmate, quelle ci avrebbero fatto andare nella direzione auspicata. Monitorandole con gli indicatori e la supervisione individuale e di gruppo a partire dalle metodologie della scuola attiva di cui sopra, quella tratteggiata nel “manifesto ideale”.  Negli incontri mensili aggiornavamo la mappa.

Tutti elementi relativamente ai quali, come già detto, rimandiamo ai 3 numeri de L’A.PE.

Come ogni anno, alla  fine del percorso ci siamo interrogati con i partecipanti alla ricerca (quelli superstiti, almeno un terzo non è riuscito ad arrivare fino alla fine del percorso) per trarre le somme. In linea di massima risulta confermato quanto andava emergendo durante l’anno e pertanto già riportato.

Un contesto fatto di molti chiari e scuri, di intrecci fitti e solitudini ancor più fitte. Isolamento, confusione, contraddittorietà di informazioni e direttive alle quali l’unica soluzione sembra essere stata: “Mi rimbocco le maniche e mi avvio da sola. Anche uscendo dal ruolo di docente e diventando una semplice cittadina”.  Per dirlo con le parole della maestra Pamela Buda.

Lo sfondo integratore

E’ stata questa una delle principali premesse. Nonché un primo intreccio con lo sfondo integratore liberazione/ interdipendenza attorno al quale abbiamo lavorato con:

  1. incontri di formazione
  2.  gruppi di lettura
  3. il percorso con i bambini all’interno delle classi e fuori scuola, portato avanti nella quotidianità dai docenti con i propri alunni a cui si affiancava l’ intervento delle guide Mammut (settimanale, quindicinale o mensile a seconda dei periodi e delle disponibilità degli insegnanti).
  4. La ricerca dei bambini che ha continuato a ruotare intorno al Barrito dei Piccoli, anche quest’anno stato on line.

 L’eterogeneità dei gruppi e le distanze sociali e geografiche che hanno connotato i partecipanti bambini sono stati come sempre tra i principali potenziatori del processo. Tanto per la forza e la qualità della relazione che si sono venute a creare, quanto per il valore che ha dato alla ricerca per l’eterogeneità del campione.  Durante il lockdown i racconti di campagna fatti di animali e ambienti agresti degli alunni di Potenza, si intrecciavano con quelli dei luoghi della città invisibile nella Vela gialla di Scampia, o con la forza irrefrenabile che rapiva un alunno del Vomero avanti al suo computer. Negli incontri a casa, in classe, in città, al Bosco di Capodimonte  nei cerchi con i bambini raccoglievamo i principali insegnamenti sulla libertà.

E torniamo così a quanto andavamo prima dicendo sugli insegnamenti elargiti da questo anno e sull’indispensabile assunzione di responsabilità/rischio di cui parlava la maestra Pamela.

 Responsabilità e Liberazione

Dopo tanto interrogarci  sul libero arbitrio con i bambini, il concetto di responsabilità non può che risuonarci fortemente anche rispetto alla  ricerca pedagogica. Se tutto è bloccato, se dall’alto e tantomeno dai propri colleghi  viene aiuto,  che faccio? Mi prendo la responsabilità di fare qualcosa che potrebbe costarmi la disapprovazione dei capi e dei pari, mi assumo il rischio di sbagliare. Sta qua il mio libero  arbitrio: non subire passivamente una situazione, ma cogliere la possibilità attraverso la scelta fatta senza doversi conformare né con chi segue la massa né con chi vuole differenziarsene a tutti i costi. Prima di essere insegnante sono un cittadino che ha un compito, che ha fatto un patto con dei bambini e non posso che lasciarmi guidare da questo patto.

In molti incontri con i bambini è emerso appunto come la liberazione passi attraverso il riuscire a seguire la propria “passione”, il proprio talento, quello che ci traina al di là del giudizio degli altri esseri umani. E questo il principio che sembra essere stato l’elemento essenziale per chi è riuscito a fare di Necessità Virtù ( anche tra i grandi). A., una delle redattrici più stabile del Barrito dei Piccoli on line,  durante uno degli incontri in cui ci interrogavamo su come ciascuno di noi avesse  fatto in passato a trovare migliori equilibri rispetto a forze invisibili che sembravano invincibili, ci ha fatto il suo racconto. Prima del lockdown lei aveva talmente paura del giudizio degli altri, di sentirsi poco apprezzata o criticata dalle compagne e dai compagni, che spesso evitava di incontrarli e se ne stava da sola a casa. Durante il lockdown ha sentito così tanto la loro mancanza che non gliene ne è importato più niente di quello che potevano pensare gli altri e adesso sta il più possibile con i coetanei. Una forza invisibile come la paura del giudizio altrui scompare avanti a un’altra forza invisibile di potenza maggiore: il bisogno di stare con altri esseri umani tuoi pari. Qualcosa di  molto simile all’interdipendenza di cui tanto abbiamo imparato quest’anno a partire da autori come Panikkar e  Morin.

L’invisibile

L’invisibile ha ispirato molte delle nostre giornate con i bambini, essendo emerso come tema migliore per lavorare attorno allo sfondo liberazione/interdipendenza, perché immediatamente suggestivo, ricco di spunti e risonanze  col vissuto.  Come abbiamo detto nei numeri precedenti, lavorare attorno a questo tema,  si è rivelato un modo unico per dare cittadinanza a una parte della persona – adulta o bambina – che in genere a scuola viene messa al bando. Alla parte tabù, condannata e vittima preferita dei facili  psicologismi. Abbiamo visto invece quanto potente e per niente pericoloso possa essere dare spazio a ciò che di irrazionale, pauroso  o meraviglioso alberga nella veglia o nel sonno di adulti e bambini. Porta che può aprirsi solo se maestre e maestri decidono di aprirla loro per primi.

Anche questo è uno degli intrecci ricchissimi tra sfondo integratore e ricerca metodologica. Fare posto all’ invisibile, condividere l’invisibile nelle giornate normali di scuola, conferire alle parti del sè che hanno la sostanza del sogno, dell’inconscio e del Mito la stessa importanza che si da alla logica, alla cognizione raziocinante si è rivelato molto importante per migliorare il modo di fare scuola.  Naturalmente rispettando ciascuno il suo ruolo, tentando di non essere invasivi.  Possibilità che ha dato a molti di noi modo di far rivitalizzare classi  spente, apatiche e irrequiete dopo gli intervalli di apertura chiusura. Sbloccare in questo modo la presenza significa migliorare anche la prestazione didattica. E anche in questo caso ci vengono in aiuto i più moderni studi delle neuroscienze, come quelli sulla memoria a lungo termine:  un apprendimento che ha radici in esperienze pregne di emotività e in ciò che ha senso per quell’individuo ha molte più possibilità di andare a finire nella memoria a lungo termine.

La parola invisibile è stata una chiave anche relativamente al comportamento dei docenti. Sia perché se si faceva qualcosa di “proibito” (ad esempio disporre i bambini in cerchio o sistemare il libri in una biblioteca di classe) si incappava nella punizione di Presidi e superiori. Sia perché a un certo punto è diventato davvero   insopportabile il vortice narcisistico. Non solo per i pedagogisti più navigati del web, ma perché avendo l’appartenenza social sostituito ogni gruppo, sembrava davvero che il racconto on line e i like fossero l’unico sale del proprio lavoro. Ecco che puntare all’invisibilità social e mediatica è diventata una sfida capace di salvare.

 Tanto più importante e sfidante anche per noi Mammut, nati con l’ambizione di far uscire dal chiuso dell’aula le pratiche di quotidianità per produrre cultura pedagogica.

 

Ma la vogliamo davvero fare questa scuola attiva?

In uno degli incontri di chiusura questa la domanda è stata avanzata con ardore da uno dei maestri.

Da più parti la scuola attiva sembra essere vissuta dagli altri docenti  come qualcosa di pesante, più faticoso e impegnativo, da docenti “sgobboni”. A volte fare scuola attiva ha significato venire guardati dagli altri come qualcuno che vuole farsi notare, preda dei suoi sogni di gloria e deliri narcisistici.

La domanda che ci siamo fatti è: come far capire che è vero il contrario? Premesso che il mestiere di maestro se lo sia “scelti” ( e non perché ripiego giusto per trovare un lavoro), chi sceglie di fare scuola attiva è perché sarebbe infinitamente più stanco, demotivato, annoiato e deluso a fare un altro tipo di scuola. La premessa è il senso, il piacere, il divertimento che nasce quando non si è più ingranaggio passivo di un meccanismo che si ritiene estraneo ad essere soggetto attivo.

Torna  il concetto di responsabilità. Molti dicono che gli è capitato o non gli è capitato di trovarsi a fare questo o piuttosto quell’altro tipo di scuola. Resta che effettivamente la scelta non è semplice, perché tanto iniziare a fare un tipo di scuola attivo quanto la decisione di continuare a praticarla passa per una forte motivazione intrinseca. La disapprovazione o il sostegno degli altri gioca di sicuro un ruolo importante, ma sappiamo che  determinante è la spinta che viene dal piacere per quello che si fa, dalle gratificazioni ricevute  dall’attività di per sé.  Qualcosa che riguarda quindi la struttura caratteriale di ciascuno, la scelta di uno stile di vita prima di tutto. Niente a che vedere con ricette e soluzioni che si va cercando da altri.

La scuola fatta all’aperto

Abbiamo a lungo parlato di quante conferme abbia ricevuto la validità della scuola fatta fuori dall’aula. Come ci siamo soffermati a ragionare su quanto sia importante l’aula e su come anche la scuola fatta fuori possa essere una pessima scuola. Per questo rimandiamo ai 3 numeri de L’A.PE, sottolineando solo che la vera possibilità (che continua a essere una necessità se a settembre non vorremo tornare in Dad) offerta da questo anno pandemico è di far uscire la scuola fuori dalle sue mura.

Scuola e salute

Come non vedere che questo è il binomio del momento. Da sempre la ricerca del Mammut è orientata verso la possibilità di una scuola salutare, dove adulti e bambini stiano bene e non abbiano voglia di scappare. Nell’anno appena trascorso non si è parlato d’altro, restringendo però il concetto di salute al solo pericolo di infezione e infettività. A un certo punto però nessuno ha potuto  più non guardare quanto i danni psicologici e esistenziali potessero diventare molto più grandi di quelli prettamente fisici. La collettività è stata chiamata a scegliere e alla fine ha scelto per la salute psicologica. Come fare in modo che questo diventi insegnamento generalizzato rispetto al fatto che la salute è dell’intera persona o non è? Che stare chiuso in classe con un docente che pretende di addomesticarti per 8 ore per un bambino è più nocivo di un virus come quello di questi anni?

Luoghi possibili

Dal piccolo censimento sui luoghi dove è possibile realizzare giornate di scuola riportiamo alcuni dei luoghi visitati a Napoli con successo:

Villa Comunale di Scampia, Castel Dell’Ovo, Castel Sant’Elmo e Maschio Angioino, Villa Floridiana, Real Bosco di Capodimonte, le strade dei Quartieri Spagnoli, Palazza Reale.

Un altro aspetto ci sembra importante sottolineare relativamente ai luoghi. Nel secondo numero de L’A.PE abbiamo dedicato molto spazio alla possibilità dei posti della città di essere di per sé occasione di liberazione e crescita, a patto che la società adulta lo permetta. Una riflessione sul sociale e l’urbanistica, a partire da piazza Giovanni Paolo II e la Villa Comunale di Scampia. Durante il periodo di lockdown, essendo chiusi i parchi pubblici, l’enorme piazza deserta è diventata uno dei luoghi più animati del quartiere e senza che associazioni o istituzioni facessero nulla.

Strumenti

Questi alcuni degli strumenti che si sono rivelati maggiormente utili: 

Esposizioni, il vocabolario della libertà, gioco di comunità, corrispondenza, giornale murale e giornale intercittadino, miti e riti, la caccia al tesoro.

Anche di questo potrete trovare materiali nei 3 numeri de L’A.PE a cui rimandiamo.

 

Discipline

Queste i principali insegnamenti relativamente alle singole materie. Fermo restando che anche quest’anno ci ha confermato che  il miglior insegnamento è che non ci sono materie, ma oggetti di curiosità da studiare in maniera multidisciplinare.

Il “progetto” a cui ricorrono le scuole libertarie e di cui abbiamo raccontato ne L’A.PE numero 2, parte appunto da un’ipotesi fatta da ciascun alunno per diventare ricerca interdisciplinare volta alla realizzazione di quell’ipotesi. Il maestro diventa un accompagnatore desiderato.

StoriaCon De Matteis, come con Livia Apa - i due antropologi con cui è partito il nostro ciclo di incontri attorno al tema - abbiamo messo bene a fuoco come geografia e storia possano (e debbano assolutamente) essere totalmente altro rispetto alla paginetta del manuale. Conferire la dignità di scienza umana, tornare a fare antropologia fin dalla materna è stata possibilità esplorata e auspicata.

La caccia al tesoro.

La distanza e il vissuto di reclusione, due delle principali variabili indipendenti introdotte dal nostro sperimentatore folle, sono state  le due principali cause del Giocone dell’invisibilità (v. N.2 de L’A.PE)

Attraverso i collegamenti on line o i laboratori in presenza le guide Mammut davano agli alunni enigmi e tracce basate sull’esplorazione e la scoperta dei luoghi della propria città, basati sulla storia locale e  in collegamento al tema dell’invisibilità e alla scrittura collettiva. Si è rivelato così un modo unico per fare storia (della realtà locale, ma anche delle dominazioni del passato, dei miti e delle altre ricostruzioni partire dalle tracce antropiche trovate durante il gioco).  Apprendimento che è passato attraverso il coinvolgimento di tutta la famiglia, vero gioco di comunità quindi, dove storie individuali e collettive che si intrecciate.

Geografia

In una delle altre tracce del Giocone chiedevamo invece di ricostruire una città invisibile. Luoghi dove erano successi eventi legati all’invisibilità o a parti nascoste della città.

Nomi di strade, paesi città che escono dal gelido oggettivo e diventano soggettività, carichi dell’affettività e dell’esperienza, fattore determinante anche ai fini della memoria a lungo termine. Ricerca trasformata in Atlante, cartografia del locale e del nazionala:  quella che è nata è stata un’altra città, mai esistita. Un atlante dell’invisibilità immaginario con luoghi raggiungibili, che abbiamo allegato come inserto a questo numero de L’A.PE. Particolarmente potenti gli incontri con i bambini dei Quartieri Spagnoli e di Scampia, che hanno lavorato a lungo su questo tema. Dai bambini della scuola  Virgilio 4 guidati dalla maestra Elvira Quagliarella abbiamo ricevuto racconti degni della migliore letteratura, capaci di dare una fotografia dell’area nord di Napoli - come unica macroarea che va da Scampia a Castel Volturno - come uno dei luoghi più interessanti della terra.

Percorsi basati sul contributo di chi ha studiato e ragionato a lungo su questi elementi. Come appunto gli antropologi De Matteis e Apa, ma anche il geografo Paul portatore di una visione della cartografia assolutamente moderna, molto più interessante oltre più aderente alla realtà effettiva.

Tutto spazio di emotività, esperienza, affettività, irrazionale, del soggettivo e della funzione essenziale della scienza e dell’arte nell’aiutare l’uomo ad approcciare a questi temi. A patto che però ciascuno dei differenti ambiti sia consapevole dei propri limiti e confini nel contribuire all’essere di ciascun individuo e collettività (che terrà insieme a modo proprio).

La scienza

L’adogmaticità della scienza, dovrebbe diventare uno dei principali insegnamenti di questo periodo. Abbiamo avuto modo di vedere quanto fosse assurda la pretesa dei tanti che anche durante la pandemia hanno continuato a confondere la scienza con la religione, a pretendere verità date e  immodificabili da chi è chiamato ad applicare il metodo scientifico (medici e virologi in primis). Insegnamento definitivo per chi continua a insegnare fisica, biologia o scienze umane come fossero religione.

In molte  occasioni abbiamo tentato di dare vigore a questo principio, oltre che nella quotidianità della classe - anche relativamente alle misure di sicurezza - nei vari modi con cui abbiamo tentato di far vivere ai bambini il metodo sperimentale. L’abbiamo fatto nella quotidianità della classe appunto, o in momenti particolari. Come nelle tracce del Giocone dell’invisibilità, ad esempio quando abbiamo chiesto di costruire le macchine dell’invisibilità.

Ma anche al Bosco,  dove abbiamo cercato di applicare molte delle conoscenze divulgate  da autori come Mancuso. Percorso particolarmente approfondito anche durante la redazione on line del Barrito dei Piccoli e dalle maestre Rossella Carrara e Rossana Sanges, che ne ha fatto il fulcro del percorso dell’ultimo anno con i suoi alunni delle quinte (racconto riportato nel numero 2 de L’A.PE).

Metodo sperimentale che abbiamo tentato di far vivere anche rispetto alla ricerca antropologica, come al Real Bosco di Capodimonte,  dove a partire dalle tracce antropiche incontrate i bambini cercavano di ricostruire le caratteristiche della comunità che abitava quei luoghi (quella che si riunì attorno ai Borbone).  

Possibilità senza limiti di età, come ha dimostrato Nadia Wembacker con i suoi alunni della materna. Che nell’esplorazione di città ha trovato soluzioni importanti anche rispetto a criticità particolarmente impegnative che riguardavano la relazione tra compagni.

Letto scrittura

Anche in questo ambito è andata confermandosi la validità dell’intuizione iniziale di Freinet su corrispondenza e giornale di classe. Il Barrito dei piccoli e lo sviluppo della motivazione intrinseca alla scrittura, rinforzata da cooperazione e voglia di scambio è capace di fare davvero la differenza. Molto importante è stato anche il percorso di studio sulla possibile attualizzazione del metodo naturale, a partire da testi come “Imparare a leggere a scrivere col metodo naturale” di Le Bohec e dall’intervista a maestri di italiani che avevano sperimentato questa possibilità. Anche per questi argomenti rimandiamo ai 3 numeri de L’A.PE.

 

Comunità

E’ stata Proprio il fatto che tutto andasse contro la possibilità di fare comunità a conferire centralità regale dell’essere comunità.  Stefano De Matteis ci ha messo giustamente in guardia dalla fallacia di questo termine, abusato e spesso del tutto insignificante se non addirittura goffo tentativo di copertura per contesti deficitari di spirito di collettività (come la scuola) o di categorizzazione forzata (come i per rom).

Quello che è emerso a un certo punto dell’anno di lavoro è stato proprio quanto il concetto di comunità fosse uscito a pezzi dal periodo di lockdown, a partire dai gruppi  classe. Come ben raccontato nei numeri de L’A.PE, in particolare da Carmela De Lucia, questo è stato forse l’aspetto più terribile del periodo di isolamento in Dad: il venir meno di quelle regole, climi e processi che caratterizzano un gruppo che condivide spazi e ritualità in periodo di tempo significativo.

Lente d’ingrandimento rispetto a quanto più in generale avveniva anche nel resto del mondo, al di  fuori dalla classe. Come la Dad non era riuscita a sostituire l’aspetto di comunità per i bambini, così per gli adulti  che avevano tentato di  trasferire sul web  vita, pensiero e momenti di gruppalità.

Questa mancanza si è rivelata occasione dunque per comprendere quanto davvero fosse un essenziale essere comunità. Al di là di ogni retorica.

Sia per quanto riguarda le varie parti che compongono una scuola: docenti, genitori, personale Ata, Presidi…. I Dirigenti scolastici ad esempio mai come quest’anno hanno davvero fatto la differenza. Portando allo spegnimento della scuola attiva anche dove c’era in precedenza un’eccellenza nazionale (come nel caso della scuola Madonna Assunta di Bagnoli) o potenziando questa possibilità con scelte di coraggio e apertura, come nel caso del V Circolo di Scampia e della network di scuole paritarie DPDB. Molte volte è bastato non accanirsi, svolgendo il proprio compito di sorveglianza con buon senso e misura. Di certo la deriva autoritaria che in tanti hanno evocato per l’andamento più generale del Paese, si è notato bene anche  con i Dirigenti scolastici. Le riforme che ne hanno fatto un aggregato di responsabilità e potere, hanno messo questi lavoratori di fronte ad enormi difficoltà e, in un tempo come questo, ha finito per avere la meglio chi aveva inteso il proprio compito come rigido applicatore di norme e direttive, con l’obiettivo prioritario di non incappare in noie giudiziarie o amministrative.   E’ scontato dire che il rapporto con i propri colleghi si è dimostrato fondamentale, essendo stato anche quest’anno uno dei  maggiori tasti  dolenti  il senso di solitudine registrato dai partecipanti. Solitudine a cui hanno posto riparo solo altri gruppi, come appunto quello della nostra ricerca.

Altra componente risultata determinante è quella dei genitori. Più volte ci siamo soffermati su questo aspetto nella nostra rivista e a questi racconti rimandiamo. Limitandoci a riportare quanto il fattore “complicità/condivisione” dei genitore dell’intero progetto educativo sia uno dei più importanti. Molti degli indicatori hanno riguardato questo aspetto, avendo deciso di mettere in campo azioni specifiche volte da una parte a rendere partecipi e più consapevoli i genitori dei presupposti valoriali e metodologici alla base del progetto educativo, sia i docenti a prendere in considerazione anche le esigenze “prestazionali” avanzate dai genitori.

Altro aspetto determinante della comunità è stata la  connessione  scuola/ città. L’abbiamo visto nelle uscite fuori aula,  oltre che su quanto potesse essere importante la connessione fornita da un giornale per bambini e per adulti. Il Giocone è stato occasione di Comunità,  attraverso la competizione che diventa cooperazione.

Molto hanno da insegnarci quei maestri che, rendendosi conto della gravità della situazione, hanno deciso di puntare tutti sulla ricostruzione  di quella comunità. Come nel caso di Luca Marino, maestro delle classi quarte alla scuola Dalla Parte dei Bambini, che ha dedicato molte delle sue giornate a ricostruire la comunità classe. A partire proprio dal suo ruolo di maestro di antropologia, prendendo quanto il programma di storia di quarta offriva sulle prime civiltà stanziali e il raffronto col nomadismo.

E’ stata questa la finalizzazione della caccia al tesoro al Bosco, dove tutte le prove e gli enigmi erano finalizzati proprio alla costruzione di un villaggio basato sull’equilibrio di tutti gli elementi della natura e dove posto di onore spettava ai racconti di liberazione.  A partire dalle  suggestioni dei miti degli indiani d’America o della biologia e dell’etologia.

 

Indicatori

Sulla validità di quanto dell’ipotesi molti sono i riscontri. Molti provenienti dalla verifica di quelli che abbiamo chiamato indicatori, quasi esclusivamente qualitativi.

Anche se molto significativa è stata la presenza degli alunni registrata dai docenti che partecipavano alla ricerca. Anche e soprattutto in realtà più difficili, che fino all’anno prima era un dato altalenante. Alla fine del percorso sembra infatti che la presenza si sia stabilizzata attestandosi su una partecipazione pressoché totale degli iscritti. 

Altri indicatori sono stati:

 quelli rilevati da docenti come Maristella di Pontenza, dove bambini hanno cominciato ad aprirsi e a condividere anche emozioni e vissuti, sbloccando la qualità della propria partecipazione anche nella didattica.

Sciogliersi di tensioni e rispetto spontaneo delle regole in uscita

Scomparsa del maestro, oltre che nelle uscite in episodi come il vocabolario della libertà raccontato dal maestro Luca Marino.

Riscontri dei genitori, meno ostili e più partecipativi.

Il significativo incremento dei momenti basati sull’orizzontalità, sul dialogo euristico.

Acquisizione maggiore sicurezza

La percezione di adulti e bambini si sentirsi parte di una comunità allargata di ricerca.

L’apertura a chi non fa parte del gruppo stretto della comunità di ricerca, anche in termini di condivisione e confutabilità da parte di “esterni”.  Una rivista è un mezzo importante per fare questo, ma anche i social hanno dato il loro contributo.

 

 

Atteggiamento

Il modo di guardare alle cose è un altro dei fattori che abbiamo rilevato come determinante. Questo l’atteggiamento che abbiamo tentato di tenere: la disposizione a guardare le cose per quelle che erano, senza ingigantire ne minimizzare, ma cercando il modo perché ciascuno degli ostacoli potesse mostrare la propria faccia di possibilità. Fare di Necessità Virtù appunto. Scegliere coscientemente di non praticare certi automatismi, di disattivarli e attivare invece nuovi circuiti di pensiero. Che  significa anche non cedere al conformismo (o all’anticonformismo non fa gran differenza) di chi fa del “mal comune mezzo gaudio” (atteggiamento antagonista enormemente rinforzato dalla pressione mediatica senza precedenti e dal balzo spaventoso che i social hanno fatto nel mangiarsi la vita di ciascuno di noi). Significa cercare i punti di collegamento tra storia personale e collettiva e farli diventare chiavi di volta. Scegliere se spendere le proprie energie a sottolineare quanto sbagliata e ingiusta possa essere una tal cosa o nel far convergere rabbia e senso di ingiustizia verso la possibilità di far diventare meno ingiusta e più sana la quotidianità propria e di chi ci è consegnato.

E’ un pungolo costante a mettersi in gioco, a prendersi la propria responsabilità e fare una scelta che si sente vivificante anche quando può costare l’approvazione altrui. Ma non perché possa costarci  l’approvazione altrui: questa è una sottile quanto fondamentale differenza tra chi segue la propria via per fare di necessità virtù e chi come propria via ha scelto quella di essere una mosca bianca, un eccellenza, un’eccezione, un eletto che il popolo non potrà mai capire.

 

Conclusioni

Insomma non sappiamo il nostro sperimentatore folle che risultati trarrebbe dal suo esperimento. Del resto ci piace pensare che non sia altro che un folle espediente a cui abbiamo ricorso per suggestionarci a inizio percorso e quindi lo lasciamo al suo posto, senza preoccuparci più di tanto di quel che penserà delle nostre di conclusioni (né se davvero tutto questo possa essere stato effetto di un esperimento umano bene o mal riuscito, come alcuni ancora oggi insinuano).

Anche perché una delle conclusioni a cui giungiamo è appunto questa: il tipo di ricerca che portiamo avanti  fa fatica ad essere riconosciuta dagli accademici e dagli altri specialisti come dai divulgatori e  dagli avventori della pedagogia che si interessano a questi temi in maniera più generale. Come fa fatica a venire riconosciuta da chi è in cerca di formazione come di qualcosa che possa salvarti, possa darti tutto ciò che ti manca per non avere problemi in quel che fai.

Il nostro principale modello resta la cooperazione educativa, dove o c’è l’attivazione personale e l’affidamento a un gruppo e alle sue regole o non c’è niente. Anche quest’anno avevamo un canovaccio iniziale e nient’altro, non sapevamo dove ci avrebbe portato l’anno e molte delle cose nate non avevamo la ben che minima idea che sarebbe spuntate. Lo stesso Giocone dell’invisibilità non avevamo idea che sarebbe nato, come del resto che il tema dell’invisibilità sarebbe diventato così prevalente.

E’ la vera scuola accidentale, quella che nasce dall’imprevisto e fa di necessità Virtù, per i grandi come per i piccoli. Non si può bluffare, o si fa o non si fa. Il costo è alto, in termini di isolamento, ma i frutti sono altrettanto notevoli. Tra le cose più belle è vedere idee e concetti inizialmente abbozzati e incomprensibili, specie a chi li incontrava per la prima volta, prendere pian piano corpo e sostanza. Parole che essendo diventate esperienza si fanno finalmente comprensibili anche a chi inizialmente aveva più difficoltà, perché cariche di materia e senso. Prova che non si è ricaduti nel micidiale meccanismo della retorica o in  razionalizzazioni avulse dalla vita.

Relativamente al tema dell’invisibilità, si è trattato di un viaggio su tutte le cose più importanti, quelle su cui si basa la vita stessa.  Siano esse immateriali come  emozioni, ricordi, sogni, Dio, amici immaginari, malattie, passioni, talenti o  materici ma invisibili all’occhio umano per impossibilità biologica (non abbiamo la vista dell’aquila né l’udito di un pipistrello) o per selezioni cognitive più o meno inconsapevoli (le piante spesso ci sono invisibili, tanti e interessanti sono gli studi sull’attenzione). Abbiamo visto quanto labili e arbitrari possano essere i confini anche relativamente a questo aspetto. Ogni possibilità di liberazione non può che passare attraverso la ricerca di un equilibrio sostenibile con queste forze, riconoscendo quando sono forze più forti di noi e come comportarci in questo caso. Risposte non ne abbiamo avute, ma più che altro aperture a nuove domande, porte verso gli interrogativi che da sempre l’umanità si è posta rispetto a ciò che rende la vita terrena limitata ma indissolubilmente attratta dall’infinito. Con una “legge” al momento condivisa soprattutto dalla redazione del Barrito on line:

 “Non tutto ciò che è visibile  esiste, non tutto ciò che è invisibile non esiste”.

 Abbiamo scoperto e sperimentato modi per interrogarci assieme ai nostri alunni attorno a questi temi, spogliandoci da  superbia e pretesa di superiorità adulte.  Abbiamo toccato l’importanza di farlo. E questa ci sembra una delle conquiste più importanti che ci piacerebbe mantenere per il futuro.

Se non abbiamo trovato una ricetta onnivalida per una vita serena e libera, abbiamo sperimentato quanto il compiere scelte e assumersi responsabilità sia determinante anche relativamente alla piega che prenderà il nostro futuro.  Facendo Di Necessità Virtù infatti non siamo diventati più ricchi o più potenti, né abbiamo potuto evitare  restrizioni e rischi della pandemia come tutti gli altri. Ma abbiamo fatto in modo che per noi e per le persone che ci erano affidate questo fosse un anno ricco di insegnamenti e doni insperati, incontrando lungo la strada persone, libri e altro che ci è risultato di grande valore e in linea con una scelta di eros. Come ci hanno fatto notare grandi e piccoli, forse la libertà sta anche in questo: non abbiamo il potere di sgombrare il campo da ostacoli e sofferenze, ma abbiamo il potere di scoprirci dentro un tesoro, proprio come al Real Bosco di Capodimonte nel mese di giugno. Potere che passa dalla porta  del saggio Chirone (mito greco visitato quest’anno), a partire quindi dalla nostra parte ombra, fragile, non potente. Attraverso una resa incondizionata della nostra volontà di controllo e di onnipotenza e nell’abbandonarci fiduciosi a ciò che è più grande di noi e ci comprende (l’invisibile caso, destino, universo, natura, extraterrestri, Dio o negli altri modi trovati dall’umanità). Non perché siamo particolarmente bravi e buoni, ma perché avremo finalmente capito che non c’è molto altro da fare.

Senso e spinta nate dall’atteggiamento  Di Necessità Virtù possono davvero fare la differenza in un contesto come quello della scuola troppo spesso caratterizzato da lamento, compiacimento del disastro, accanimento su quel che manca e sull’impossibilità di fare cose buone e belle per mille e un problema, sempre imputabili ad altro da se (come ci ha fatto notare il nostro compagno di strada e maestro Claudio Tosi).

Su tutto questo abbiamo trovato molti materiali importanti e interessanti, capaci di dare valore e significato alle nostre ardite parole. Dalle neuroscienze ad esempio, dove sembra che certe cose di cui anche noi parliamo e che da alcuni vengono ancora viste come fricchettonagini new age, abbiano invece salde  conferme nella sperimentazione scientifica. Si pensi ad esempio alla psicologia dello sport e a quanto molti dei postulati da noi enunciati trovino applicazione e riscontro negli allenamenti e nelle prestazioni di atleti internazionali.

Insomma sì, un anno e mezzo di sospensione della normalità, l’aver vissuto un incubo collettivo, può essere un punto e a capo rispetto a un modo di essere e fare scuola e città che non andava  bene. Dove e come fare scuola diventano il modo per realizzare questo cambio di pagina. Solo così l’anno non sarà passato invano. Anche perché se è vero che un punto e capo ci sarà (o probabilmente c’è già stato), non è assolutamente detto che vada nella direzione sperata. La deriva presa da decenni verso una società del distanziamento basata su robitazzazione dell’umano e paura dello straniero, potrebbe ricevere un’accelerazione gigantesca. La retorica di una scuola nuova può portare esattamente in questa direzione.

Ci piacerebbe invece che quanto messo in campo da noi e da molti altri in questo periodo contribuiscano a determinare la direzione del cambiamento. Essendo la prova che questa possibilità può essere vera e concreta, per tutti:  le istituzioni potrebbero fare la differenza, quello che abbiamo visto è un cambiamento che non può prescindere da una scelta davvero collettiva. Ma non di una minoranza e di pochi eletti, ma di una collettività che attraverso i suoi organi di governo fa scelte coraggiose e lungimiranti. E’ molto difficile credere che questo possa diventare possibile, ma tant’è. 

A noi e a chiunque non può fare altro che questo tipo di scuola e di sociale, non resta che continuare a farlo. Ben consapevoli che le forze che spingono verso la liberazione e la crescita nella ricerca di equilibrio col creato, maggioranza o minoranza che siano, sono la vera incrollabile istituzione. 

L’auspicio e l’indicazione è che le forze di tutti, vertici istituzionali  e organizzazione sociali di base, convergano verso una scuola e una città che abbiano le caratteristiche che quest’anno di lavoro e di vita ci hanno fatto conoscere e che abbiamo tentato di raccontare anche attraverso i tre numeri de L’A.PE.

 

 

 

 

 

Raccomandazioni specifiche per il Ministero della Pubblica Istruzione

Come più volte rimarcato nell’ambito del documento di fine ricerca e dal più generale spirito che lo anima, riteniamo che la particolare congiuntura del momento offra un’opportunità unica di mettere mano ad una riforma seria e radicale della scuola che vada nella direzione auspicata da maestri come Freinet, Montessori, Steiner. Quanto questo possa rimanere appannaggio dei sempre più pochi privilegiati e quanto invece  farsi patrimonio della scuola di tutti dipende in larga misura dalle scelte degli amministratori pubblici, in primis da chi si trova al governo nazionale.

Riportiamo pertanto alcune semplici indicazioni di buon senso, ma frutto dei tanti anni di lavoro e ricerca su campo, augurandoci che possano tornare utili a chi oggi si trova a rivestire incarichi di responsabilità:

  1. Operare una scelta di campo, radicale e netta, relativamente al tipo di scuola (e quindi di società) da realizzare nel breve, medio e lungo termine. Sul “come” e  “dove” fare scuola rimandiamo a quanto finora detto.
  2. Mettere l’interesse delle bambine e dei bambini al di sopra di ogni altra considerazione che possa guidare il cambiamento, operando quindi in maniera globale, d’intesa con ognuna della area della pubblica amministrazione (l’urbanistica ad esempio ) perché sia la città nel suo complesso a potersi trasformare anche ai fini delle nuove modalità di apprendimento.
  3. Avendo ben presente il cambiamento a medio e lungo termine che si intende operare, mettere immediatamente in campo misure operative rivolte a fornire formazione e strumenti di lavoro a insegnati e altro personale scolastico e attrezzando le aree idonee ad ospitare le lezione fuori area. Premessa necessaria a incentivare la scuola fuori aula fatta secondo principi e metodologia della scuola attiva, sta nel rimuovere il più possibili gli ostacoli di natura burocratico amministrativa che frenano Dirigenti e docenti, oltre a mettere in campo politiche attive di incentivo e formazione rivolta a promuovere e a consentire agli insegnanti di sentirsi il meno a disagio possibile relativamente alla scuola che si va proponendo.
  4. Grazie anche ai  fondi e alla spinta che viene dalla tanto acclamata “ricostruzione” post Covid, è possibile aprire una fase davvero rinnovata anche relativamente ai soggetti attuatori del cambiamento. Premessa in questo caso è mettere da parte le logiche che hanno animato fino ad oggi gli interventi rivolti al miglioramento della scuola, anche attraverso il terzo settore. Riteniamo che ogni reale cambiamento debba passare per una radicale rottura di questo sistema, che ha visto consegnare progressivamente ogni reale possibilità di cambiamento nelle mani di grandi gruppi privati e determinate tipologie di Dirigenti scolastici, con un primato di Fondazioni private afferenti al settore bancario. Riteniamo che sia possibile e necessario mettere da parte le logiche aziendali e affaristiche che sono state alla base di questi processi, basate su un ingigantimento dei comparti amministrativi e comunicativi degli enti, a discapito della qualità e della dignità del lavoro su  campo. Logica che tra l’altro non è riuscita assolutamente a neutralizzare familismi e altri meccanismi del consenso elettorale.

Ogni reale cambiamento non può quindi che passare per il superamento di tale approccio, tanto che si basi sui finanziamenti a pioggia assegnati direttamente alle scuole, quanto sugli altri tipi di finanziamenti dati a associazioni e reti private (o pubblico-private) tenute insieme principalmente dal bisogno economico. Questo sistema non è servito se non a portare qualche momentaneo miglioramento nelle attrezzature e alla realizzazione di simpatici e variopinti progetti da far circolare sui social. Ma non è cambiata affatto la natura della relazione didattica e tantomeno lo stutus dell’infanzia nella nostra città e nella società più in generale. Riuscendo invece, talvolta,a peggiorare tale condizione. Ognicambiamento deve dunque mettere un taglio netto con questo tipo di impostazione

  1. Sin da subito sarebbe invece possibile al Ministero individuare in molte città persone e, talvolta, gruppi che da anni e senza possibilità di equivoci portano avanti l’idea di una scuola attiva e di tutti nei singoli territori. Non sarebbe difficile per il Ministero costituire delle nuove istituzioni  pubbliche, animate proprio da queste persone (affidando dunque loro le precise responsabilità dei nuovi enti) con la funzione di fare da cerniera tra società e scuola in quanto attuatori e co-costruttori della nuova idea di scuola che si intende realizzare. Enti ispirati a esempi virtuosi e variegati come il  MEMO di Modena, o della Casa Laboratorio Cenci di Amelia o quello che riuscì a inventarsi Roberto Papetti al Comune di Ravenna, capaci dunque di farsi da volano e promotori attivi sui territori di una scuola davvero rinnovata. Con un’adeguata dotazione di risorse e un’ investitura  pubblica di rilievo, questi enti potrebbero avere davvero una funzione “rivoluzionaria”, capace di far risparmiare soldi e energie con risultati mai ottenuti finora.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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