L’anno della porta del Mammut è finito. Avevamo chiesto aiuto ai Miti di passaggio, quelli del trapasso (Orfeo e Euridice, Er…), perché ci sembrava che il momento fosse davvero epocale, vorace di trasformazioni radicali come unica possibilità per la sopravvivenza. E anche questa volta i Miti non ci hanno delusi.
Come avevamo previsto il 2015 è stato l’anno in cui il sociale ha ricominciato a girare. La parabola discendente del welfare, quella più volte raccontata da noi e da altri (che aveva visto prima un’esternalizzazione/privatizzazione dei servizi sociali e poi il progressivo smantellamento anche di questo sistema per il venir meno di fondi pubblici. Vedi anche Lavorare sociale, una professione da ripensare, a cura di Giulio Marcon, ed. dell’Asino, Roma 2015 e “Fare scuola fare città”, di Giovanni Zoppoli, ed. dell’Asino, Roma, 2014) sembra aver cominciato a ritrovare un primo equilibrio. E come avevamo previsto al ribasso, in ogni senso.
Se è vero che una minoranza di lavoratori del sociale è davvero riuscita a trarre i dovuti insegnamenti da questi anni di crisi (mettendo in moto quella trasformazione di cui sopra, che a volte ha coinciso col cambiare mestiere), dall’altro è andato consolidandosi un sistema sociale inquietante. Se in quasi tutti i settori dell’economica è peggiorato il livello di trattamento giuridico ed economico dei lavoratori nel mercato del lavoro del welfare, dove le cose già andavano malissimo, le condizioni degli operatori di base sono colate a picco. Come nessun progresso sembrano aver fatto legislazione e risistemazione di quei settori cruciali dello Stato, quelli che vengono prima del “sociale” (scuola, immigrazione, urbanistica e, più in generale, economia). Il tutto in un clima ancor più radicale di sfiducia, che ha travolto anche associazioni e cooperative del privato sociale a seguito dei ben noti scandali.
Non mutando nulla del proprio sconfinato apparato burocratico amministrativo (i cui operai di prima linea si sono trovati iper stressati dal crollo di un sistema), le pubbliche amministrazioni hanno tentato a riavviare un welfare minimo, pescando tra le macerie di associazioni e cooperative superstiti. Compiendo in alcuni casi, come a Napoli, svolte fino a poco fa impensabili, come riuscire a pagare i propri creditori con massimo un anno di attesa (a molti sembrerà la palissiana, ma fino a tre anni fa il Comune di Napoli effettuava pagamenti anche a 5 anni).
Eppure spiace dirlo (perché riguarda anche Giunte che sentiamo vicine come quella del Comune di Napoli appunto), a fronte di conquiste che appena dieci anni fa nessuno avrebbe definito tali, tanto il dibattito quanto la qualità dei servizi sembrano aver fatto un balzo all’indietro di 50 anni. Appalti vinti al ribasso, servizi di supporto ai compiti scolastici peggiori di un doposcuola improvvisato, politiche d’integrazione basate sulla logica delle classi speciali, assistenza e supporto sociale prestato da operatori sull’orlo della crisi di nervi e senza nessun supporto psicologico/formativo. In assenza di un disegno unitario di città a cui aspirare e con l’esasperazione delle logiche di spartizione territoriale delle grandi associazioni e cooperative sopravvissute. Ci ha colpito ad esempio una clausola che sempre più il privato sociale sta imponendo a bambini e ragazzi che partecipano alle proprie attività ludico educative: se ti iscrivi da noi, non potrai frequentare nessun altro centro o attività educativa affine.
Un sociale in cui hanno ormai prevalso le esigenze del racconto burocratico/spettacolare, dove tutto si piega alle esigenze di marketing e del consenso politico. Un’educazione che sembra insomma aver abdicato alla propria vocazione di liberazione e sviluppo del vero sé, per farsi cane da guardia e formatrice di bravi cittadini della società del mercato e dello spettacolo.
Nell’Italia dei tagli è del resto stato il mercato e la finanza ad assicurare in molti casi la persistenza del lavoro su campo, anche nel welfare. Nord compreso, dove molti dei servizi sociali sono garantiti dai fondi di fondazioni private. Non c’è dunque da stupirsi se molte delle ONG un tempo dedite alla cooperazione internazionale stiano sempre più ripiegando sull’Italia. Molte delle sperimentazioni più avanzate in ambito di lotta alla dispersione scolastica degli ultimi anni si sono attuate proprio grazie ad alcune di queste ONG (ad esempio i “Punti Luce” e il programma “Frequenza 200”, ricerche alle quali abbiamo preso parte anche noi).
Quello che non va è la cultura che c’è dietro, troppo simile a quella che la peggiore cooperazione internazionale ha attuato in questi anni nel terzo mondo. Un grande apparato di impiegati e funzionari, destinato allo studio di politiche di marketing capaci di stimolare e solleticare bisogni caritatevoli, attraverso la vendita di una visione della realtà fortemente deformata in funzione proprio di quei bisogni caritatevoli su cui si intende far leva. Un approccio di mercato tuot court, all’insegna della distanza tra chi è durevolmente interno alla macchina dell’organizzazione benefica e chi dovrebbe fruire dei suoi benefici. Distanza molto visibile per chiunque sia stato in Africa. Una macchina che ha costi notevoli per potersi autoalimentare e che può destinare solo piccole e sporadiche quote alle organizzazioni locali. Anche perché se oggi tira la dispersione scolastica, domani tirerà di più il mercato della violenza sulle donne, e dunque il gruppo locale dovrà arrangiarsi.
Non cambia molto se negli uffici ci siano dipendenti pubblici al posto di quelli delle ONG. In questo caso anzi le cose si fanno spesso semplicemente più squallide e lunghe perché burocraticamente complicate. Il concetto è lo stesso: il personale deputato al reperimento e alla gestione delle risorse umane e economiche se ne sta in ufficio, con trattamento economico e giuridico più o meno accettabile (ovviamente con tutte le differenze rispetto al gradino gerarchico occupato), mentre sul campo vanno le risorse residuale e del tutto precarie.
Tanto lo Stato, quanto il libero mercato, risultano incapaci di assicurare l’ingrediente essenziale ad un buon intervento sociale: lunga durata e stabilità. Nelle amministrazioni pubbliche come nelle organizzazioni private, si preferiscono le competenze manageriali a quelle proprie del settore a cui l’assessore o il dirigente sarebbe preposto. Con la conseguenza di una migliore sostenibilità economica dell’organizzazione, che però finisce per non avere più niente a che fare con la ragione sociale che ne costituiva la ragione prima di esistenza.
Sono queste le considerazioni a seguito anche del nostro giro di presentazione di “Come far passare un Mammut attraverso una porta”. A Torino, Milano, Firenze, Bologna, Genova, Roma, Caserta, Napoli, Palermo e nelle altre città in cui ci siamo incontrati con operatori e insegnanti la situazione sembra confermare quanto fin qua raccontato: perdita dello slancio etico politico che connotava l’intervento di base degli anni 70/80; eccessiva sindacalizzazione degli operatori, a cui non corrisponde però alcun diritto minimo; crescita esponenziale della richiesta d’aiuto da parte dei territori, a cui non si sa come far fronte; desolazione delle politiche nazionali e locali.
Come dicevamo cominciano però a farsi strada forme più attuali di resistenza, vaccinate alla retorica aziendale e centro-socialista degli anni ‘90.
Esperienze nuove, come quella di Palermo, con la biblioteca autogestita Booq, nata all’interno di un locale occupato da genitori stanchi di lamentarsi di fronte ad un pubblico (e a un privato) incapace di assicurare servizi minimi per l’infanzia. Ma anche realtà antiche, come quella delle Piagge, che ci ha fatto piacere ritrovare finalmente in piena forma. La Comunità delle Piagge di Firenze sembra forse l’unica (tra quelle finora visitate) ad aver trovato un equilibrio tra sociale finanziato e cittadinanza attiva gratuita. Il bibliotecario del piccolo prefabbricato da poco destinato a vendita e scambi libreschi, è tra i più competenti librai mai conosciuti, capace di scovare testi introvabili e farli diventare patrimonio di comunità. Eppure è un volontario. Così come la comunità delle Piagge, con il prete Alessandro Santoro inossidabile animatore, continuano a fare cultura e politica per l’intera città.
Siamo rimasti emozionati dalla presentazione organizzata dalla nostra amica Francesca Traverso nella biblioteca Don Gallo di Genova . Mai ci saremmo aspettati di trovare così tanti insegnanti, studenti di medicina e di architettura, educatori e operatori culturali capaci di starsene un pomeriggio a ragionare attorno ai temi della didattica salutare che loro stessi mettevano in campo in quella città. A stupirci è stato il sistema della scuola che ospitava la biblioteca, basato su una didattica attiva e capace di farsi territorio, capace di riguadagnare la zona del porto alla dignità di territorio di pregio. Prova ne è che un tempo nessuno voleva andarci ad insegnare in quella scuola, mentre oggi pare che i docenti facciano a gara per andarci a lavorare.
Queste e altre (come quella del Forum Tarsia nel Parco Ventaglieri a Napoli), esperienze che ci hanno ridato fiato. Il limite resta il carattere prevalentemente marginale, l’impossibilità di farsi “città” e “scuola” (anche se spesso si trattava di organizzazioni ben collegate con gruppi e servizi locali e nazionali). Esperienze per lo più basate sullo sganciamento dal sistema dei finanziamenti (pubblici e privati), non escludendoli come eventualità aggiuntiva, ma non essenziale.
Nel nostro giro di presentazioni cercavamo anche spunti per il tentativo di costituzione di un comitato di gestione popolare capace di farsi carico della gestione dei locali Mammut in piazza Giovanni Paolo II (così come raccontavamo nel libro appunto). Non è forse un caso se in nessuno dei luoghi visitati abbiamo trovato qualcosa di simile. Ma solo la domanda sul come sia possibile che i cittadini di un territorio non riescono ad autonomizzarsi da chi ha dato vita all’esperienza.
Tra aprile a giugno al Mammut si sono succedute animati incontri con genitori e ragazzi, con puntate nei palazzi comunali alla ricerca di interlocutori disposti ad assecondare il processo di costituzione di un comitato popolare di gestione. A fine giugno abbiamo dovuto rassegnarci rispetto al fallimento senza appello di questo tentativo. Portandoci però a casa un bel po’ di insegnamenti. Ad esempio che organizzazioni basate sul mutuo aiuto o sull’occupazione non possono essere create se non a partire dalla spinta autonoma di chi dovrà poi farsene carico. Abbiamo così dovuto confrontarci col demone del bravo genitore che lascierà l’eredità ai figli e con il mito del bravo fondatore che una volta dato vita alla città parte per nuove eroiche imprese. Di fronte a un’esperienza territoriale consolidata non ci sono alibi e vie di fuga: o ci stai e te ne fai carico, o te ne vai. La precarietà dipende anche da questo: quanto i responsabili dell’organizzazioni sono disposti a garantire lunga durata a quella organizzazione?
E noi abbiamo deciso ancora una volta di starci. Provando a mettere in pratica gli insegnamenti di questo duro anno:
- Una didattica salutare è possibile. Ci sono molte insegnanti e educatori disposti a mettersi in gioco e a lavorare verso questa direzione, perché molto forte è l’esigenza di ridare senso e dignità al proprio ruolo di educatori. E la ricerca di una didattica capace di potenziare la salute di persone e territori sembra la pista giusta.
- Separare la sostenibilità dell’organizzazione da quella delle persone che ne fanno parte. Che come abbiamo detto non significa bardarsi in rigidità anti finanziamento, tutt’altro. Ma semplicemente non confondere se stessi con la propria organizzazione, permettendo ad entrambe di esistere al meglio. A trovare fonte diversa di sostentamento economico è preferibile che sia proprio chi occupa ruoli di guida e coordinamento, permettendo così alle poche risorse economiche di far andare avanti l’organizzazione.
- Non dare messaggi ambigui relativamente alla responsabilità/potere sulla propria organizzazione;
- Fare comunità come possibilità di fare Comunità. Ovvero quanto dicevamo prima sulla capacità di fare “politica”, di passare dalla buona pratica isolata al fare scuola e fare città.
E’ chiaro che cambia molto, a partire dal fatto di non essere più un progetto istituzionale, non potendo far finta di niente rispetto al precipizio in cui sono cadute le politiche del welfare. Non cambia però la nostra bussola, ovvero il lasciarsi guidare dalle domande di ricerca e istanze etiche. Convinti che a guidarci debba essere una spinta originaria, verso qualcosa a cui tendere (anche utopica) e non reazionaria (nel senso di reazione a qualcosa che si intende combattere). E non abbiamo troppi dubbi che l’utopia verso cui oggi vale la pena più che mai tendere è quella che a che fare con la riconessione ecologica di autori come Langer e Capitini.
E’ insomma il momento di scelte radicali, di decidere senza più ambiguità e doppi giochi da quale parte della porta stare: la liberazione individuale e collettiva o la sua colonizzazione da parte del mercato spettacolare. Diventando molto più cattivi verso chi ha optato per la seconda possibilità.
Anche il prossimo anno sarà un anno all’insegna della sperimentazione sulla possibilità di costruire una didattica salutare. Le tante piste avviate nel corso dell’anno (e di cui troverete maggiori dettagli nelle altre pagine del sito Mammut) proseguiranno nelle scuole con cui abbiamo avviato la ricerca attorno al Bestiario con il Mito VIII, come nei locali in piazza Giovanni Paolo II dove oltre alle attività con bambini e ragazzi cercheremo di far coagulare sempre più azioni e riflessioni di qualità e respiro universale.
Il Mammut non si è estinto, riuscendo a trovare il coraggio di varcare la sua porta grazie alla forza e al calore arrivate da ogni parte d’Italia. Ci auguriamo di ritrovarvi a settembre da quest’altra parte della soglia.