Alle dipendenze

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Alle dipendenze

 

di Giovanni Zoppoli

La DAD, lo smart working e modalità affini di studio e lavoro on line vanno sempre più imponendosi come modalità prevalenti di esistenza, e sempre da più parti viene manifestata la necessità di una riflessione più approfondita sui temi della dipendenza da schermo (web, video giochi, televisione…)

Cerchiamo di dare il nostro contributo mettendo in condivisione quanto appreso in questi 20 anni dal lavoro su campo con bambini, adolescenti e adulti con il Centro di Ricerca del  Mammut di Scampia.

 

I . Angolature

Come sempre accade, ci sono diversi modi di guardare al problema. A partire dalla scelta di definire la dipendenza da video “problema”. Cosa che in tanti, consapevolmente o inconsapevolmente, non fanno.

Noi siamo di quelli che pensano che questo sia un problema, e anche tra i più pesanti del nostro tempo,  effetto collaterale tra i più preoccupanti dell’ emergenza sanitaria.  

Sul concetto stesso di “dipendenza” esiste più di un approccio di analisi e di cura. I comportamentisti (corrente della psicologica, vedi https://it.wikipedia.org/wiki/Comportamentismo#) ad esempio trattano la dipendenza da schermo considerandola già di per sé “il problema”, tentando di impattare sui comportamenti che non vanno perché vengano progressivamente messi da parte e sostituiti con altri più funzionali. Sono terapie che molto spesso danno risultati importanti e anche rapidi, sollevando il “malato” dal suo disturbo in maniera efficace (dipendendo, come tutte le terapie, dalle qualità umane e professionali del terapeuta). Altre correnti di pensiero consigliano invece di guardare alle dipendenze da video esclusivaemente come un “sintomo”, essendo necessario arrivare al “vero problema” per poter ottenere qualche risultato duraturo e non superficiale. Tra le critiche mosse all’approccio dei comportamentisti, ci sarebbe la scarsa durata degli effetti della cura o il semplice spostamento del sintomo (non si tratterebbe cioè di una guarigione ma semplicemente di una migrazione da comportamento ad altro comportamento).

Come sempre noi preferiamo approcci non fondamentalisti, sufficientemente elastici da prendere il meglio dalle varie scuole di pensiero perché possa tornare davvero utile all’unicità di ogni situazione. Come avviene in medicina, dove una fase acuta va curata con farmaci allopatici capaci di far rientrare il sintomo, mentre all’omeopatia può essere lasciato altro spazio. Tra i nostri principali riferimenti sul tema c’è Mario Mastropolo (che fu docente dell’Università Federico II e psicoterapeuta). Per lui, come per molti altri esponenti della Gestalt e dell’analisi transazionale, la dipendenza da video è una delle varianti del più generale tema delle “dipendenze”, e per poterlo affrontare in maniera adeguata bisogna necessariamente agire sul fattore che ne costituisce la base: una simbiosi non risolta. La simbiosi originariamente è una condizione fisiologica, sana, funzionale alla vita di madre e bambino. Melanie Klein parla di un’unità madre/bambino, a significare il tipo di legame senza uguali che viene a crearsi alla nascita tra generato e generante, dove anche i confini tra i corpi perdono consistenza e le due creature finiscono per coincidere (quella che era unità fisica prima della nascita diventa unità psicologica dopo). Il bambino impiega parecchio tempo per arrivare a distinguere il sé dal non sé del corpo della madre, e successivamente all’evento “parto” molte madri devono attraversare un momento doloroso come la “depressione post parto”, dovuto all’effettiva sensazione di vuoto interno lasciata dal proprio bambino che nascendo, va via dal suo grembo. Sappiamo quanto sia dura anche per il bambino ‘uscire’ dall’utero della madre, trovarsi in un mondo senza più confini caldi, certi, ritmati, sicuri. Insomma il momento è difficile e la natura ha pensato a un meccanismo sublime come quello che gli psicologi chiamano appunto “unità madre bambino”. Tutto quello che segue è un successivo processo di individuazione, un progressivo mettere confini, trovare sé stessi e darsi una connotazione più o meno duratura, capace di non confondersi con quella degli altri. Processo che dura tutta la vita, con fasi alterne, ma che come sempre accade ha nei primi anni di vita il suo tempo più importante. Un processo che alterna fasi di identificazione (con i genitori e gli altri adulti di riferimento) ad altre di differenziazione (dai genitori e dagli altri adulti di riferimento, fase tanto forte nell’adolescenza, il momento in cui bisogna “uccidere” il proprio genitore per poter nascere). E’un lungo processo di autonomia che arriva a maturazione quando, giunti a un sufficiente livello di individuazione e superati gli asfittici legami di dipendenza, possiamo finalmente riconoscere la nostra interdipendenza da ogni cosa.

II. Individuazione e lavoro su campo

Il tema ci è tanto caro perché nei 20 anni di lavoro tra centro e periferia dalla nostra ricerca azione è più volte emerso che una delle principali difficoltà ad uscire dal disagio era riconducibile proprio alla mancanza di autonomia, da parte di grandi e piccoli. A partire dalla forte resistenza a lasciar andare il proprio figlio o educando da parte di genitori, docenti, assistenti sociali, psicologi e altri caregiver. Il mancato processo di autonomizzazione è insomma emerso come tra i principali fattori alla base delle marginalità urbane incontrate sul nostro cammino. Tema che è personale ma immediatamente anche politico, perché riguarda il micidiale binomio assistenzialismo/vittimismo, come dinamica dell’handicappizzante di molti contesti socialmente depressi. Abbiamo più volte riportato episodi che ci è capitato di vivere in cui anni di duro lavoro educativo sono stati mandati in fumo da famiglie terrorizzate dal vedere il proprio figlio andare per la propria strada. Famiglie che propria quando il figlio stava per risolvere il suo problema nella ricerca di un lavoro o del rendimento scolastico, mettevano in atto meccanismi di recupero e di reiterata handicappizzazione davvero potentissimi e irresistibili. Comportamenti questi diffusi in tutte i casi più critici, in cui la mancanza di ragioni di vita sufficientemente forti e stimolanti suggerivano al genitore (o altro caregiver) di rimanere avvinghiato al proprio figlio. Fattore psicologico in molti casi strettamente connesso ad un movente economico (in territori economicamente depressi avere un parente invalido può costituire una buona soluzione al problema del reddito). Processi questi riscontrati con i bambini quanto con gli adolescenti. Considerando poi che il nostro territorio originario di operatività  è Scampia, risulterà facile immaginare quanto abbia inciso sulle nostre riflessione la necessità di confrontarci con una delle dipendenze più subdole e diffuse come la dipendenza da sostanze stupefacenti. E’ importante sottolineare che riscontri analoghi a quanto andiamo affermando li abbiamo avuti nel lavoro con le famiglie dei “centri”. Nelle famiglie agiate o comunque non disagiate (economicamente e culturalmente), dove il mancato processo di superamento della simbiosi originaria assume connotazione diverse, ma talvolta ancor più drammatiche.

Nell’anno scolastico 2018/19 in particolare abbiamo lavorato sul tema dell’individuazione/separazione con il percorso del “Mito del Mammut” e del “Barrito dei Piccoli” (vedi www.mammutnapoli.org), attualizzazione della metodologia di Celéstin Freinet e di altri che come Don Milani, nella scrittura collettiva hanno visto uno strumento importante di cambiamento sociale, oltre che utile ad imparare a leggere e scrivere. Il mito di Urano e Gea ad esempio è stato una delle narrazioni che più ci è tornata utile a produrre crescita collettiva sul tema della separazione.

III - La funzione paterna

Dopo quell’anno è emerso che una delle principali falle che non permettevano il buon esisto del processo di individuazione stava nel venir meno della funzione paterna. E’ importante parlare di “funzione paterna” e non di “maschio” della famiglia, perché sono due cose molto diverse. La funzione paterna può essere esercitata anche in maniera esclusiva dalla madre, trattandosi di un compito a cui l’adulto deve attendere. Quella  funzione essenziale deputata a “tagliare il cordone ombelicale”, ad accompagnare il figlio verso l’esterno, come se il processo di separazione fosse talmente doloroso che serve un “altro”, uno che non sia né la madre né il figlio ma che risulti intimo ad entrambi, per dare una smossa (alcuni preferiscono la parola “trauma”) necessaria alla seconda nascita, quella che porta fuori dalla caverna (il mito della Caverna di Platone è utilissimo per lavorare sull’argomento) costituito dal nucleo primario di appartenenza  (la famiglia). Se il processo di simbiosi non viene superato come potrebbe, la responsabilità e la cura va ricercata quindi all’intero del nucleo familiare primario (e nelle varie componenti che agiscono all’interno di ciascuno dei  genitore indipendentemente dal sesso), tanto nel genitore che si prende troppo spazio, quanto in quello che se lo lascia rubare, rinunciando all’intimità. Tante volte negli incontri con Mastropaolo, quanto durante il lavoro con i bambini nelle scuole, è venuta in luce la figura  del padre/cane da guardia, o del padre “mammo”, o quello della donna fallica perennemente in collera verso uomini cattivi o inutili. Essendo questi concetti strettamente collegati con quelli (non a caso altrettanto in crisi) più generali di “potere” e “autorità”. Tutto l’anno 2019/2020 lo abbiamo dedicato al tema dell’autonomia e della funzione paterna, trovando nella narrazione del mito di Dedalo e Icaro un nuovo validissimo complice e ricordando spesso il proverbio che Mario Mastropaolo citava con saggezza: la madre dà le gambe, il padre le ali. Arrivando quest’anno a lavorare invece sul binomio libertà/interdipendenza, che però è appena agli inizi.

 

IV. Big Data

Rimasti nella condizione psicologica della simbiosi, caratterizzata da una dipendenza simile a quella del neonato dalla mamma (che è pressoché totale, senza la mamma o altro caregiver il neonato non sopravviverebbe) non si può far altro che rimettere in campo quelle condizioni capaci di garantire il permanere di uno stato di dipendenza totalizzante. Se non si lavora sulla dipendenza originaria, non si possono ottenere progressi significativi nemmeno sulle relative derivazioni.

Per ragionare sul tema della dipendenza da video è perciò secondo noi necessario prima ragionare su tutto questo. Arrivando immediatamente dopo ad entrare nello specifico, anche perché man mano che andiamo avanti il rapporto umanità-video assume valenze sempre più invasive. Diventa così essenziale consultare anche altre scienze, come la medicina e l’economia. Essendo anche necessario contestualizzare il problema nella situazione che a noi interessa, ovvero quella dei bambini e la scuola.  Non si può trascurare quanto gli studi ci dicono sulla dannosità del mezzo, su quanto l’utilizzo del video da parte dei bambini provochi danni alla salute. E su questo ci siamo soffermati all’inizio del lockdown in marzo, pubblicando una piccola inchiesta sul tema (http://www.mammutnapoli.org/it/4.4_209/didattica-tecnologia-e-salute.htm) riportata anche dalla rivista “Gli Asini”.

E’ vero anche che se conosciamo quanto dannoso possa risultare un uso improprio delle tecnologie da parte dei bambini, non conosciamo ancora  i danni provocati da una “scuola igienica”.  Nei primi mesi della ricerca della nostra ricerca 2020/21 ci è risuonato piuttosto inquietante quanto riportato dalle docenti del nord e dai maestri che hanno potuto svolgere qualche giorno in presenza anche in Campania. Durante la didattica in presenza dei primi mesi di scuola del 2020 la demonizzazione del contatto, la perenne quanto strisciante paura del contagio e il conseguente divieto di contatto fisico non imputabile a un fattore esterno con cui potersela prendere (come l’autorità della maestra) ma ad un fattore endogeno, come la paura, sembrano aver avuto ripercussioni non poco rilevanti. Clima di precarietà e incertezza dovuto anche al vedersi chiudere classi intorno, in attesa che tocchi alla tua. Clima fomentato dai trend comunicativi prevalenti nei mass media e nei gruppi di appartenenza, succubi sempre più delle onde di salita e discesa delle curve dei contagi e di una situazione ospedaliera al collasso. Difficile insomma, a fronte della scarsità di studi attendibili sull’argomento, valutare quale situazione sia attualmente più nociva per la salute dei bambini.

Come è difficile non vedere che, DAD o non DAD, la tendenza attuale è a trasferire una buona fetta della propria esistenza sull’on line. Nel lavoro come nello studio. Grandi e piccoli, dal marzo 2020, trascorrono davanti al video un numero di ore fino a qualche mese prima inimmaginabile. E’una condizione di vita senza precedenti. Sabato scorso abbiamo tenuto una formazione con un gruppo di Verone in video della durata di 5 ore. Si è trattata di un’esperienza di contatto molto intensa, come sempre a partire da vissuti e emozioni non superficiali. La sensazione provata alla fine è stata qualcosa di mai vissuto prima: tanta intensità di contatto, un’esperienza di gruppo a tratti addirittura intima… con il corpo che non si era mosso dalla stanza e in desolante solitudine. Non ho mai provato allucinogeni, ma l’unico paragone che mi è venuto in mente sono stati i racconti della psichedelia degli anni ’60.

Benché altrettanto non materico, a differenza della psichedelia si tratta nel nostro caso di uno spazio del viaggio molto facilmente percorribile anche da altri, che da quello spazio possono ricavare dati e informazioni utili ai loro progetti economici e politici. E qua oltre al riferimento ormai palese al grande fratello di Orwell, a noi non può che venire in mente la filosofia alla base di uno dei partiti che ci governa in questo difficile periodo e che è inquietantemente rilevabile dal video “Gaia – The Future of politics” (https://www.youtube.com/watch?v=sV8MwBXmewU) associato a Casaleggio (padre). Sappiamo bene quanto l’economia e la politica si basino sui big data, sulle informazioni ricavate dal nostro presente da internetnauti, sappiamo bene che ogni nostro atto è ormai controllato attraverso l’uso che facciamo delle tecnologie,  eppure è questa la direzione verso cui sempre più di noi andiamo e convintamente.

Il complottismo è probabilmente un alleato di questo progressivo dissolvimento della libertà nella vita virtualizzata, bisogna fare molta attenzione a non lasciarsi contagiare. Eppure è evidente quanto oggi tra  gli elementi che caratterizzano la sempre più diffusa dipendenza da video ci sia una forte utilità da parte dei principali gruppi economici e politici del pianeta, specie di quelli basati su big data e web marketing. Difficile non pensare che anche loro facciano la loro parte per favorire questa dipendenza.

 

V. In finale

Sulle fragilità psicologica venutasi a creare negli ultimi decenni a seguito di un deficit nel processo di superamento delle condizioni simbiotiche originarie, si sono andate ad innervare nuove modalità di fare economia e politica. Per lavorare attorno al tema delle dipendenze da video, oggi bisogna tenere più che mai presente questo incastro. Essendosi alzata la posta in gioco, essendo diventato il compito più difficile, questa condizione costituisce probabilmente un’ulteriore sfida/occasione evolutiva per il nostro tempo. Il problema andava affrontato, oggi non possiamo più non affrontarlo.

 

 

 

 

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