I roghi, le fotocopie e la città felice
“Incendio nel campo rom fumi tossici su Scampia chiuso l’asse mediano”
Così titola Il Mattino di oggi, lunedì 25 luglio.
A leggere l’articolo di Paolo Barbuto (sicuramente avrà fatto del suo meglio e sarà in buona fede, non è un attacco al giornalista ), sembra di rivedere uno di quei film in cui i giornali, a corto di giornalisti, tirano fuori uno dei pezzi fotocopia già pronti da riciclare all’occorrenza.
Frasi come: “e s’è allargato alle montagne di rifiuti pericolosi che i rom accatastano nel campo…” o “Tante le reazioni di rabbia….” sono sempre verdi, rinvenibili in ognuno di questi pezzi.
Mentre ormai sembra del tutto perduta la possibilità di analizzare e raccontare quello che c’è dietro a questi incendi (pur essendo stato denunciato mille e più volte, oltre che da noi, da tantissimi altri). Poco conta se una narrazione dei fatti dove i rom sono gli unici responsabili dei roghi non ha molto da invidiare alla disonestà di furgoni e auto che nei campi rom vanno a riversare i rifiuti che noi cittadini spediamo in queste terre per non pagarne i costi di smaltimento. O quanto lo smaltimento di rifiuti speciali (quelli risultanti da questi roghi) siano un affare ghiottissimo per chi di rifiuti si occupa. Certo è che le immondizie che vanno a fuoco sono anche quelle dei rom che nel campo vivono, come certo è che i rom (o almeno non tutti i rom) sono solo povere vittime di questo stato di cose.
E’ proprio in uno dei tanti campi rom di Scampia, poi andato in fumo all’ inizio di questo secolo, che nacque l’associazione Compare (acronimo di Comitato Per l’Assegnazione e Realizzazione di soluzioni abitative non ghetto per i rom), che nel 2007 avviò e ancora oggi porta avanti il progetto Centro Territoriale a Scampia Mammut.
Quel campo (di via Zuccarini) non c’è più, gli incendi nei campi rom quelli invece sì. Come rimane pressoché invariato tutto quanto prima e dopo si muove (o soprattutto sta fermo) attorno a questi incendi.
Dal 1997, anno in cui approdammo tra i rom di Scampia, purtroppo la questione rom è solo retrocessa. Per noi andare a fare attività nel campo insieme ai rom aveva senso in un’unica ottica: non erano tanto i rom ad aver bisogno di noi, ma viceversa: la città avrebbe potuto fare un balzo di crescita se solo avesse iniziato ad occuparsi di questa questione con saggezza.
C’è stato anche un momento in cui le cose sembravano cominciare a prendere una piega diversa: verso la fine degli anni ‘90 un gruppo di rom all’interno dei campi di Scampia aveva cominciato a farsi portatore in maniera adeguata dei bisogni di chi nei campi viveva; nella città si era creata una buona sensibilità e addirittura le istituzioni sembrava che cominciassero a ragionare. Erano anni diversi, quelli in cui a livello nazionale si stava muovendo qualcosa in questa direzione, con associazioni come “Osservazione” che portavano avanti una battaglia culturale di avanguardia. Quel processo si è interrotto bruscamente, a livello nazionale come nel locale. Di lì a poco nel campo dove andavamo avvenne il già citato incendio.
Da allora a Napoli, come in gran parte d’Italia, la situazione si è cristallizzata attorno ai campi, con associazioni del terzo settore a cui il Comune delega la gestione di un ordinario fatto di immobilità, di tirare a campare (degli operatori del terzo settore e dei rom), di prepotenza e ingiustizia.
Oggi come allora, un incendio invece che essere la riproposizione del sempre uguale, potrebbe diventare occasione di ripensamento e cambiamento, non solo per i rom, ma per tutti.
Noi ci proviamo ancora, come sempre abbiamo fatto e sempre faremo.
La questione continua ad essere quella di una città che non ha la capacità di progettare il suo futuro, che non riesce ad avere altro traino che il capriccio anarchico (nel senso peggiore del termine) del profitto e del tornaconto personale, della spinta al guadagno e breve, o al massimo, medio termine.
Le istituzioni Stato, Comune e Regione, come il resto del pensiero prevalente nel sociale, nel migliore dei casi, pensa che della periferia e dei rom ce ne si possa occupare come dei bisognosi: l’unica ottica continua a essere quella del benefattore che si occupa dei poveri.
Con i rom, come con tutti gli altri “poveri”, questa ottica non funziona!
Quello che serve è un’idea di città felice. Dove il sociale non è un campo a sé, ma solo uno degli aspetti delle politiche del lavoro, della casa, dell’urbanistica, delle pari opportunità, dell’istruzione e cultura. Un’idea che nelle radici economiche e sociali delle diverse aree urbane (più o meno corrispondenti ai quartieri) vede un possibile volano di sviluppo futuro.
Se solo la città e le sue istituzioni smettessero di guardare a Scampia esclusivamente come ad un’ area del disagio, iniziando a vederne invece una possibilità senza pari per lo sviluppo dell’intera città, anche per i rom qualcosa cambierebbe.
Se solo istituzioni e città potessero avere, solo per un minuto, gli occhi dei bambini con cui arriviamo a Scampia da altre zone (come il Vomero), alunni a cui non infarciamo la mente con propositi buonisti prima del viaggio. Per loro Scampia è una terra piena di campagne, dove ci trovano occasioni pedagogiche impossibile da trovare altrove. Vengono accolti da A., operatrice del Mammut che vive nel campo rom, e nemmeno lo sanno che è rom.
Se l’antica vocazione agricola a cui quest’area di Napoli è stata violentemente sottratta in nome dello sviluppo economico venisse riscoperta, se si riuscisse a guardare quello che c’è al di là della narrazione dicotomica buoni/cattivi, si riuscirebbe a vedere che oggi Scampia è indiscutibilmente una delle aree di Italia più ricche di sperimentazioni sociali e pedagogiche, per lo più senza, se non addirittura malgrado le istituzioni. Anche l’Università finalmente sembra stia aprendo, ma molto più importante è quello che in questi anni di deserto su quel territorio è nato e cresciuto, qualcosa di molto più prezioso e radicato, anche e soprattutto in termini di formazione.
C’è chi come Aldo Bifulco ci ha speso una vita e ancora ce la spende, a fare spola tra banchi e terra, recuperando e prendendosi cura di moltissime aree pubbliche altrimenti abbandonate. Ci sono tantissimi giovani (e meno giovani) che attorno all’esperienza del Gridas, hanno creato una progettualità pedagogica, sociale e artistica senza pari in Italia. C’è la presenza storica dei Gesuiti e di molte altre parrocchie, scuole coraggiose come il V Circolo guidato dalla Preside Paola Carnevale, ci sono abitanti che hanno rivoluzionato il proprio destino, come lo storico “Comitato Vele”, i “Poliici Verdi”, Davide Cerullo, Davide Zazzaro e tanti altri che hanno saputo ribellarsi alla schiavitù del benefattore, divenendo autonomi, potenti motori del cambiamento sociale. C’è anche un grande patrimonio della migliore accademia che in questi anni ha sempre accompagnato il quartiere nelle sue fasi come il dipartimento di Urbanistica dell’Università Federico II.
Abbiamo impiegato poco più di un cinquantennio per devastare lo scenario della nostra città e dei suoi quartieri. Il prossimo cinquantennio potrebbe bastare per iniziare a cambiare di nuovo volto, stavolta nella direzione opposta.
E’ una palese ingiustizia, che deve cessare subito, quella per cui gli abitanti delle aree attorno al campo rom di cupa Perillo (rom compresi) siano costretti a respirare aria malsana, e più in generale a vivere in zone assolutamente pericolose per la salute pubblica (la pandemia non ci ha insegnato proprio niente?).
Essendo un problema preminentemente di visione, la stampa ha una grande responsabilità nel possibile cambiamento di ottica.
Ma è chiaro che la responsabilità maggiore sta in chi fa la politica, a partire dalle cariche pubbliche. Se mai ci fosse una regia politica al servizio della felicità di questa città, non servirebbe la vista d’aquila per vedere come Scampia oggi potrebbe diventare uno dei più importanti poli pedagogici, ecologici e sociali.
Grazie anche alle misure di sostegno al reddito nate negli ultimi anni, oggi sarebbe possibile realizzare soluzioni abitative più dignitose per i rom e gli altri cittadini di quest’area. I campi non sono mai la soluzione, lo dicevamo vent’anni fa e lo diciamo ancora. Gli sgomberi lo sono ancora di meno. E quanto avvenuto in questi venti anni dovrebbe convincere tutti. L’unica possibilità sta in progetti individualizzati, ripensando al contempo in maniera globale alla destinazione/interazione di tutte le aree della città, non solo a quelle dove i rom vivono: è solamente nella mescolanza, nella cessazione di aree di lusso a discapito di quelle di degrado, nello sviluppo della vocazione di elezione di ogni quartiere, nella spinta prevalente alla giustizia sociale, che sta la possibilità di una rinascita duratura di ogni città, di Napoli soprattutto.
Non sarà facendo sgomberi, o un ulteriore campo rom autorizzato (come quello vergognoso aperto nel 2000 sull’asse mediano di Scampia), né palazzi di periferia dove ammassare in verticale (anziché in orizzontale) il disagio sociale, che ci saranno soluzioni ai problemi che oggi liquidiamo con la parola “rom”. Oggi sarebbe più possibile che mai ridisegnare anche la presenza di questi abitanti napoletani. Servirebbe solo coraggio e capacità di regia politica, occasione per avviare una città più efficiente e intelligente (oltre che più umana) per tutti.
Giovanni Zoppoli - Centro Territoriale a Scampia Mammut